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05/09/12

La cucina povera della valle di Imperia



di: Massimiliano Gentile

Capire perché le basi della cucina tradizionale di questa valle siano così povere non è semplice; infatti qualsiasi turista, soprattutto al primo impatto, vede una terra calda, soleggiata, arieggiata d'estate, mite d'inverno. Praticamente un angolo di paradiso. Questo ho potuto notarlo bene lavorando negli alberghi in zona ma anche negli anni di lavoro in Germania, dove è facilissimo incontrare qualcuno che vi ha trascorse le ferie.

L
a valle Impero, come un po' tutta la Liguria, è una sottile striscia di terra, stretta fra il mare e la provincia di Cuneo, con pochissima o niente pianura; difficile quindi da coltivare a meno di enorme fatica, mitigata oggi dal lavoro di terrazzamento fatto in tempi remoti e l'ausilio di alcune macchine, piccole, perché spesso i sentieri che portano agli orti sono ripidi, stretti, ancora a mulattiera.

Proprio dove sono nato, a San Lazzaro Reale, c'è un ponte ormai malridotto, che fino a quando non fu costruita l'attuale statale per Torino era l'unico sbocco verso il Piemonte: di conseguenza poco traffico e popolazione assai chiusa, più per secolare abitudine che altro. Basterebbe pensare alle due primarie risorse di un tempo, le poche colture, l'olivo e la pesca, spesso praticata con "barchette" dai 10 ai 14 metri, il classico gozzo.

L
a città di Imperia è inoltre molto giovane, nasce nel 1926, con decreto voluto e approvato da Mussolini. È una fusione delle due cittadine di Oneglia e Porto Maurizio. Ancora oggi, io stesso, quando vado in città dico agli amici "vado a Porto" o "a Oneglia", non a Imperia, termine usato più per la burocrazia, o in senso generale, come dire comunemente "vado in città".

È
anche ben conosciuto l'astio tra le due popolazioni, che si riscontra ancora negli anziani quando devono parlare di quelli dell'altro borgo: i "cancelotti" quelli di Porto Maurizio e i "ciantafurche" quelli di Oneglia; prima dell'unificazione ad Oneglia c'erano i lavoratori e a Porto Maurizio i signori. Anche i due porti marini sono ben divisi, uno per le merci, l'altro turistico. E' anomalo anche per un foresto (forestiero) che i dialetti cambino tanto tra paesi vicini.

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ualche esempio, l'imbuto a Imperia è il turtarò, a Sanremo (circa 20 chilometri di distanza) si dice inciù; la pizza, sempre nelle due città menzionate si dice rispettivamente piscialandrea e sardenaira, in altri paesi si chiama anche pisciadèla o pisciarà. Risultano ostici persino a me certi dialetti, come quello di Pigna, di Ceriana, ecc.

Entrando più direttamente nei prodotti tipici, oltre alle olive si annovera una discreta pesca (oggi sempre più in crisi per la penuria di pesci) praticata solitamente a "strascico", la coltura dei fiori e ben poche industrie, tra cui oltre a quelle dell'olio va ricordata la pasta, famosa nel mondo, quella degli Agnesi. Sapendo che anche scrivendo pagine su pagine dimenticherei qualcuno mi fermo qui.

Le basi della cucina tradizionale è quindi fatta di pesce povero
, verdure, olio, pasta, farine e aromi. Oltre al vino che merita però un capitolo a parte. Con questi pochi ingredienti le donne si sono ingegnate nelle preparazioni più strane e stravaganti, aggiungendo molti aromi appunto per "arricchire" il solito piatto.

S
pesso accadeva che a tavola si mangiava una fetta di pane raffermo bagnata con acqua e aceto, coperta di verdure lesse e bagnata da sapori vari, con una forte predominanza di acciughe e aglio. Una padellata di castagne bollite o arrostite sulla stufa a gas era spesso la cena, accompagnata da un bicchiere di vino e qualche verdura (patate o cavoli).

Tra i piatti più antichi e tradizionali si ricordano: la Torta di patate, che veniva cotta al centro del fuoco a legna, con ripieno di patate e verdure a seconda della stagione. Il Pan fritu, una semplice sfoglia di pane cotta sul ferro caldo della stufa e condita con sale o zucchero.
I Friscioi, erano fatti in passato, ma ancora oggi, con le verdure lesse avanzate, le uova e un poco di farina, fritti a cucchiaiate. Oppure la variante per bambini (ma anche per i grandi) preparati con fette di mela, uova, farina e zucchero: in questo caso si chiamano Frisciöi de mea (o mera). La Carbonera, verdure lesse condite con un intingolo piccantino a base di aglio e prezzemolo. Le Sciüe cine (fiori di zucca ripieni), riempiti con verdure lesse, uova, formaggio e altri ingredienti a scelta. Il Pesto, fatto con aglio, basilico e poco più, senza dimenticare l'olio di oliva. La Farinata, semplice farina di ceci con acqua e sale; qui a Imperia si fa aggiungendo foglie di cipollotti tritate fini. La Torta di zucca, è una sfoglia semplice ripiena di zucca, uova e poco più, aromatizzata in modi diversi, spesso con l'aggiunta un "funso", o solo il gambo, per insaporire.

E ancora il Cunìü (coniglio) entra tra le poche carni da sempre usate, per la facilità e l'economicità del mantenimento degli stessi. Nei paesi sovente si incontrano donne che vanno a "fare l'erba" per loro. Si prepara con pochi ingredienti: coniglio, vino bianco, timo, pinoli, aglio e sale. Come sempre varia da posto a posto, ma la base è questa. La Gaina (gallina) era tenuta più per le uova, e si lessava. Con il brodo si facevano minestre varie (come sempre senza buttare niente). Le Anciue (acciughe) venivano consumate fresche, fritte o al forno con verdure, oppure salate e conservate. Utilizzate sia in cucina che mangiate con solo pane (e abbondante vino). La Stroscia (non saprei come tradurlo, viene da strosciare, rompere in modo maldestro, infatti si spezza con le mani) è un dolce fatto con farina, olio, zucchero e lievito; impastata e cotta in vari modi, qui si fa tipo treccia, e spolverata di zucchero semolato.
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e ne sono ancora molte, ma si fa molta fatica ad estorcere le ricette originali alle casalinghe, anziane e un po' diffidenti, magari. È stato quello sopra un "assaggio" della cucina tradizionale, oggi arricchita di piatti più elaborati, anche se con le stesse basi di partenza.

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